Sono privilegiato. Faccio l’operatore umanitario.

 

In occasione del World Humanitarian Day , la giornata mondiale dedicata all’aiuto umanitario, Cesvi celebra l’impegno degli operatori umanitari che lavorano ogni giorno in condizioni estremamente difficili all’interno di campi rifugiati, in zone di guerra o regioni colpite da disastri naturali.

A seguire la testimonianza di Enzo Maranghino, Esperto Emergenze Cesvi.

Lo scorso 25 aprile stavo per uscire di casa quando sento la notizia del terremoto in Nepal. Mi chiama un amico e mi dice: “non partirai mica per il Nepal?”.

Dopo qualche ora mi contatta Cesvi : “sei disponibile ?”

“Si”.

Dopo due giorni parto. Passo da Bergamo, in sede. Sono carico e concentrato. È bello sentire il supporto dei colleghi e sentirsi al centro di un programma di emergenza. Anche l’ego si nutre e si esalta in questi momenti. Non mi piace, come principio, avere un ego forte, ma a volte mi serve per sopravvivere. Sento la passione dei mie colleghi, di tutti coloro che vorrebbero partire, intervenire direttamente in un dramma collettivo come quello del terremoto. Questo amore e questa voglia di aiutare gli altri che percepisco nei miei colleghi, cosi come nei miei cari ed amici, mi dà un’inspiegabile forza necessaria per catapultarmi ed operare nei disastri umanitari. Sento di rappresentare ed esprimere il bagaglio umano e professionale di un’intera organizzazione.

Vado all’aeroporto. Il conducente dell’autobus mi esorta a portare il cordoglio degli italiani al popolo del Nepal. Lo farò all’ufficiale dell’immigrazione che stampa il mio passaporto. È importante mantenere la parola, ed esprimere parole di compassione e di pace.

Durante il volo guardo un film : “A good lie”, la storia di alcuni lost boys, ragazzini sud sudanesi scappati dalla guerra civile che raggiungono a piedi i campi rifugiati in Kenya. Quelle facce e quei drammi mi sono familiari. Piango. Non capita spesso e di certo non capita in missione, dove i sentimenti mi pare che si congelino. È un pianto che unisce le esperienze passate alle nuove che sto per vivere.

Arrivati sopra Kathmandu cominciamo a girarci intorno. Il giorno è sfumato e la luna appare ogni 5 minuti nel mio finestrino. L’aeroporto è congestionato da decine di aerei in partenza ed arrivo. Giriamo sopra Kathmandu per due ore. Mi ricordo quando volavamo intorno la base militare americana di Kandahar per poi atterrare a spirale, per evitare di essere una facile bersaglio. Non mi piace volare. Preferisco volare in sogno, a corpo libero e non dentro un pezzo di lega d’alluminio con due ali.

Atterriamo. L’aeroporto è immerso nel caos. Non c’è corrente e solo alcune zone sono illuminate dai generatori. Tanta gente confusa, squadre di soccorso, container e cargo dappertutto. Beni da distribuire che resteranno là bloccati per settimane. È già iniziato lo sciacallaggio della ricostruzione. Le potenze economiche che vogliono controllarne gli appalti fanno pressione sul governo, che per non scontentare nessuno blocca gli aiuti in attesa del miglior offerente.

Kathmandu è buia e deserta. Sono in Nepal. Un respiro profondo e il giorno dopo si comincia.

Contatti, incontri con potenziali partner, il primo sopralluogo a Sankhu, un villaggio nella Kathmandu Valley. Un disastro! Sembra stato colpito da decine di missili. Gli abitanti sotto shock rantolano tra le macerie, alla ricerca di qualche oggetto, soprattutto alla ricerca di memorie sepolte. Altri sono seduti vicino le case sventrate, aperte come scenografie teatrali dove puoi vedere le stanze, i mobili, ancora qualche quadro appeso. Sono persi nelle voragini dei pensieri e delle emozioni. Non hanno ancora realizzato che la casa non c’è più. Individuiamo alcune centinaia di famiglie tra quelle che hanno perso tutto e stanno vivendo all’aperto.

Il giorno dopo cominciamo a distribuire cibo e beni di prima necessità. Arrivano altri colleghi e moltiplichiamo i sopralluoghi, le distribuzioni, gli interventi di assistenza umanitaria. La missione in Nepal è operativa dopo pochi giorni.

Questo è il nostro lavoro, individuare e supportare i più colpiti da una crisi, che sia guerra o disastro naturale; se non è possibile aiutarli tutti allora aiutare i più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani, i malati, i gruppi etnici emarginati, i gruppi socioeconomici svantaggiati. Operare al servizio dei più deboli, sempre e comunque, nonostante tutte le pressioni che ti spingono verso altre direzioni. Gestire i fondi che si hanno a disposizione in modo trasparente ed efficiente, perché sono donazioni che vengono dal cuore della gente o, se sono fondi istituzionali, comunque dalle tasche delle persone comuni. Per cui non vanno sprecati e vanno canalizzati direttamente a sostegno di chi ha bisogno.

Io sono questo tramite. Prendo i fondi, li trasformo in interventi concreti di aiuto e li trasferisco ai più bisognosi. È piuttosto semplice. Per questo mi piace lavorare in emergenza: devi essere rapido ed efficace. Devi anche districarti in una giungla di interessi economici, di strategie geopolitiche, di faccendieri e avvoltoi; comprendere immediatamente le sottigliezze culturali, i valori di mercato, i meccanismi di comunicazione da adottare, e non perdere mai di vista l’obiettivo umanitario.

È piuttosto semplice lavorare in emergenza anche se devi convivere con la malaria e la diarrea, possibili attentati, rapimenti, esplosioni, schizzare fuori dal letto tutte le notti dopo l’ennesima scossa di terremoto, il caldo, il cibo che non è quello di casa, e casa è lontana; viaggiare per ore su strade sterrate, viaggiare per ore su strade dove è altissimo il rischio d’incidenti, tanto stress, stanchezza, fibrillazioni atriali, sentirsi ad un certo punto svuotati completamente, anima e corpo. Però poi vedere un filo di speranza negli occhi delle persone che stai aiutando e le mani increspate dei bambini che si attaccano alle tue.

Sono privilegiato. Faccio l’operatore umanitario.

Enzo Maranghino