Teatro e integrazione: storie dal Libano

 

Negli ultimi due anni, il grande flusso di rifugiati siriani in Libano ha logorato l’economia già debole di questo piccolo Paese, portando a un impatto negativo sui principali settori produttivi. Il progetto di “impiego rapido” promosso da Cesvi ha l’obiettivo di far fronte alla carenza di lavoro nelle comunità che ospitano i rifugiati siriani e, al tempo stesso, di favorire l’integrazione e prevenire le tensioni sociali.

 

di Chiara Lombardi, project manager di Cesvi in Libano

Vedendoli così sicuri sul palco sembrano vecchi amici, diventati attori di una compagnia amatoriale consolidata. Invece si sono conosciuti solo pochi mesi fa. Hanno in comune una cosa: un passato complicato, trascorso in Siria o in Libano.

C’è Waleed, trentenne siriano, che da poco più di due anni è scappato dal suo Paese perché non crede nella guerra. È fuggito in Libano da solo e dopo qualche mese ha fatto di tutto per far arrivare anche la madre anziana. Ha lasciato tutto in Siria: casa, amici e il lavoro che amava. Ha lasciato anche un fratello che è stato imprigionato ed è la ragione principale per la quale Waleed deve per forza lavorare: assicurargli cibo, cure (non disponibili in carcere) e magari un avvocato.

Waleed era un ragazzo normale in Siria prima della guerra: nel tempo libero amava andare a teatro e per questo ha voluto partecipare alla nostra attività. Per lavoro costruiva case. Le stesse case che ora sono ridotte ad un cumulo di macerie.

Sullo stesso palco c’è anche Hussein. È un anziano distinto signore libanese. Durante la guerra civile ha perso tutto. Con fatica, ha ricostruito la sua casa e la sua vita. La malattia del figlio gli ha complicato ulteriormente l’esistenza, riducendo le poche risorse a disposizione.

Waleed e Hussein sono emozionati: saranno attori per una sera, sullo stesso palco. Si scambieranno le parti, in una storia semplice, costruita sul valore del rispetto reciproco in nome della dignità umana, che prevarica confini e appartenenze. È la storia di una famiglia siriana sfollata a causa della guerra, che deve pagare l’affitto e non ha i soldi per farlo. Una condizione vera, tristemente normale a Joun, il villaggio nel quale noi di Cesvi operiamo. La famiglia siriana trova una busta sotto la porta con i soldi per l’affitto e non sa chi l’abbia lasciata. Alla fine si scoprirà che la busta è stata lasciata proprio dal padrone di casa, che durante la guerra in Libano era stato accolto e ospitato da una famiglia siriana e ora vuole sdebitarsi per quanto ricevuto in passato.

Questa storia piace perché è vera. Perché racconta della difficoltà emotiva e materiale di lasciare il proprio Paese e la propria vita, dell’inziale diffidenza reciproca tra rifugiati e comunità ospitanti e poi dell’integrazione che passa necessariamente da una consapevolezza: tutti possiamo aver avuto o avremo bisogno di aiuto e di solidarietà. E la solidarietà non ha confini.

Qualche giorno dopo aver scritto questo articolo, ho saputo che Waleed è partito. Dovevo immaginarlo. Dopo l’ultimo spettacolo, era stranamente euforico e agitato. Comunicando con due parole in arabo e due in inglese, mi ha chiesto di scattare alcune foto insieme, con il suo smartphone. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. È partito, Waleed. Era stanco dei problemi legati al rinnovo del permesso, stanco di non trovare un lavoro, stanco di un futuro incerto. Dicono che ora sia in Turchia: ha seguito la rotta indicata da conoscenti sullo stesso smartphone con il quale abbiamo scattato le fotografie. Buona fortuna Waleed, che tu possa avere la vita felice che meriti!