Il Sudafrica e la “pandemia fantasma”

Testo di Matteo Manara

Fin dall’inizio è stata chiamata da UN Women, l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile, “pandemia fantasma”: è quella della violenza contro le donne durante il Covid-19. “Ancor prima della pandemia” – ha affermato il direttore esecutivo di UN Women Phumzile Mlambo-Ngcukache che, molto significativamente, è originaria del Sudafrica – “la violenza contro le donne era una delle forme più diffuse di violazione dei diritti umani. Da quando sono iniziate le restrizioni da lockdown, la violenza domestica si è moltiplicata, diffondendosi nel mondo come una pandemia fantasma”.

Il Sudafrica è proprio uno dei Paesi del mondo dove il problema della violenza domestica, già prima dell’avvento del Coronavirus, destava maggiore preoccupazione per dimensione e gravità del fenomeno. Abbiamo dunque chiesto a Luvuyo Zahela, responsabile della Casa del Sorriso di Cesvi che nella capitale Cape Town dà rifugio a donne che hanno subito violenza e ai loro bambini, di raccontarci qualcosa di più sugli ultimi mesi…

Per alcune donne e bambini la casa è un luogo pericoloso” – esordisce. “In tutto il mondo la violenza domestica sta crescendo e il Sudafrica non fa eccezione”.

Si può parlare anche in Sudafrica di “pandemia fantasma”?

Purtroppo parlano i numeri. Nella sola prima settimana di lockdown, alla fine di marzo, la polizia sudafricana aveva già ricevuto più di 87.000 denunce riguardanti tematiche di genere. Potenziali violentatori e vittime sono stati costretti a convivere nello stesso ambiente e questo ha causato la crescita della violenza domestica e degli abusi, sia per numero che per intensità.

È solo una questione di convivenza, o dietro c’è di più?

L’incremento è dovuto ad un insieme di fattori, tra cui quello più ovvio è l’impossibilità per la vittima di scappare fisicamente. La perdita di reddito a cui hanno dovuto far fronte molte famiglie, emozioni come paura, risentimento e stress e la mancanza della routine quotidiana che spesso nella normalità allevia le tensioni, hanno creato un ambiente domestico estremamente volatile. Gli operatori Cesvi stanno attualmente avendo a che fare con diversi casi di donne che si sono trovate intrappolate in relazioni disfunzionali proprio a causa delle restrizioni determinate dal lockdown. Purtroppo la violenza domestica, a differenza delle persone, non si può mettere sotto chiave.

Come è stata in questi mesi la vita nella Casa del Sorriso?

La Casa del Sorriso è il consueto luogo sicuro dove sono ospitate donne e bambini vittime di violenza. Alcune ne abbiamo accolte anche in questo periodo. Quanto a tensioni e difficoltà, siamo come ogni famiglia. Le giornate del lockdown sono difficili, i bambini sono in giro tutto il giorno perché non possono andare a scuola; le mamme si sentono depresse, imprigionate e sotto stress. Ma come nelle migliori famiglie nelle situazioni di difficoltà o di aggressività c’è sempre la possibilità di mediare e di trovare delle soluzioni intermedie che facciano tutti contenti.

In Sudafrica ad oggi si sono registrati oltre 80.000 casi di Coronavirus e più di 1.600 decessi. Dopo aver assunto misure di contenimento tra le più severe del mondo, il presidente ha recentemente annunciato il proseguimento della fase di progressivo allentamento delle restrizioni.

Quali sono le iniziative che ha assunto Cesvi con riguardo alla pandemia?

La prima ha riguardato certamente la protezione degli ospiti e dello staff, con mascherine, igienizzanti, e severe procedure di quarantena e distanziamento per chi proveniva dall’esterno. Ci siamo impegnati poi in importanti iniziative di sensibilizzazione, in partnership con la polizia, affinché le persone sentissero la necessità di indossare le mascherine e di rispettare il distanziamento sociale. In alcune aree prossime alla Casa del Sorriso abbiamo distribuito mascherine.

Ci sono altri trend che come operatori umanitari considerate preoccupanti?

Il più significativo nel contesto del Coronavirus ricorda quanto accadde in seguito all’arrivo del virus HIV ed è la stigmatizzazione delle vittime. Questo è molto preoccupante perché la sua conseguenza sarà quella di impedire ogni intervento mirato al supporto delle stesse. Anche su questo fronte dovremo lavorare molto per la corretta sensibilizzazione della comunità!