Nella Casa del Sorriso di Harare nasce la speranza per un futuro migliore

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di Elena Scarrone, Giornalista Tg3

Appena varcata la soglia della Casa del Sorriso di CESVI ad Harare ci avvolgono le note gioiose di una melodia, una danza africana, suonata dagli stessi ragazzi. Gli strumenti, Xilofoni di legno e percussioni. In cortile, intorno ai musicisti, una ventina tra bambini, alcuni di pochi anni e adolescenti ballano felici insieme ai volontari e ai loro insegnanti. La nostra guida è Alessia Moretti, capo missione in Zimbabwe, responsabile del centro. Vive in Zimbabwe da ormai 5 anni. Spiega che qui ogni giorno i ragazzi trovano accoglienza, cibo e possono lavare i propri vestiti.  Ci porta nelle aule dove si leggono poesie e si studia matematica. Gli sguardi sono attenti, stare seduti in un banco è un privilegio. Tra le lezioni seguite con più interesse, quella di informatica. La giovane volontaria che assiste i ragazzi racconta che in classe si fanno disegni al computer. Sullo schermo compaiono i loro sogni. Ma anche le paure e i traumi subiti. Disegnare aiuta a far emergere impulsi, emozioni. Un vissuto, quasi sempre, di violenze e abusi terribili.

In cucina alcune donne preparano il pranzo. Molte sono le mamme dei bambini accolti. Vedove o senza marito, non hanno un lavoro e non riescono a sfamare i propri figli. Ricambiano così l’aiuto ricevuto.

Tra le colonne portanti della Casa del Sorriso, Ignatz Marama. Tutti qui lo chiamano Seguro, nonno. Ha 70 anni, i suoi occhi emanano una luce vitale. Spiega che lavora alla Casa del Sorriso dal 2012. Prima era operatore sanitario nel programma governativo di prevenzione sulla trasmissione del virus HIV, una vera piaga nel Paese, che ha provocato milioni di vittime. Di ragazzi di strada Marama ne ha conosciuti tanti. Orfani, figli illegittimi o con genitori separati per i quali nella nuova famiglia non c’era più posto. Per i più sfortunati la vita di strada inizia a 5 o 6 anni. Sui marciapiedi di Harare conoscono altre violenze. E imparano a rubare, per sopravvivere. Spesso sono più piccoli rispetto ai loro coetanei a causa della malnutrizione. La prima cosa che cerchiamo di fargli comprendere, racconta Marama, è che in questa casa sono al sicuro, protetti. Che bisogna rispettare sé stessi e gli altri. Che i più piccoli vanno protetti. È molto più che un lavoro. È una sfida. Prima li si allontana dalla strada maggiori sono le possibilità di successo. Per questo i volontari di CESVI li vanno a cercare.

In un’aula c’è Prince, 27 anni. Legge ai più piccoli la favola di pinocchio. Da poco è diventato un volontario. Per otto anni ha vissuto per strada. Ci accompagna nei quartieri alla periferia della capitale. Lungo le rive di un torrente colmo di immondizia, una distesa di baracche. Ci vivono ragazzi e adolescenti. Prince li conosce tutti, è stato uno di loro. Vivere per strada significa lottare ogni giorno per sopravvivere.  Violenze e aggressioni fra bande rivali sono all’ordine del giorno. Gli altri compagni di questo viaggio verso l’inferno, alcool e droghe di ogni tipo.

In Zimbabwe, fino a 20 anni fa considerata la Svizzera degli stati africani, quasi tre quarti della popolazione vive in condizioni di povertà. Secondo i dati UNICEF solo la metà dei bambini frequenta la scuola dell’obbligo. Le rette statali sono troppo alte: 100 dollari per la scuola primaria, 300 per la scuola secondaria. Cifre enormi per i redditi di gran parte delle famiglie. La Casa del Sorriso riaccende la speranza concreta in un futuro migliore. Per ragazzi come Prince e come Mabel. 21 anni, rimasta orfana a 6, porta sul volto l’esperienza della vita per strada, una lunga cicatrice. Eppure oggi Mabel sorride. Aiuta gli altri ospiti della Casa del Sorriso e sta frequentando il college con indirizzo turistico alberghiero. Realizzerà il suo sogno: diventare chef e lavorare sulle navi da crociera.

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Foto di Roger Lo Guarro