Focus Libia: due domande a chi lavora sul campo

Le storie di Kali e Bereket ci hanno offerto una testimonianza diretta di come Cesvi lavora nei centri di detenzione in Libia per garantire protezione e diritti a migranti e a rifugiati, con un’attenzione particolare ai soggetti più vulnerabili, grazie al sostegno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS).

Kali e Bereket sono due bambini di 4 e 5 anni, i più vulnerabili tra i vulnerabili. A loro e ad altre categorie protette di persone sono rivolti i servizi di referral esterno”, tramite cui riportiamo i casi ad altri attori competenti che esercitano pressioni per il rilascio dei detenuti.

Abbiamo approfondito questa componente di progetto con l’aiuto di Paola Toffetti, Project Manager del progetto finanziato da AICS a Tripoli.


D: In cosa consiste più precisamente un’attività di referral? Quali sono i tipi di referral che attiviamo nei centri di detenzione in Libia?

R: Il referral è una procedura che, a seguito dell’identificazione dei bisogni di una persona – in questo caso dei migranti detenuti nei centri – viene attivata per garantirle i servizi di cui necessita.

Nei centri disponiamo “referral interni” quando individuiamo persone che hanno bisogno di supporto psicosociale, indirizzandole alla psicologa del nostro staff perché possa seguire da vicino i loro casi.

Quando invece ci imbattiamo in detenuti che necessitano di cure sanitarie, trasferiamo la competenza del caso ad altre organizzazioni presenti nel centro che offrono questo genere di servizi.

Le storie di Kali e Bereket ci raccontano un tipo di intervento ancora diverso: quando la persona che abbiamo di fronte è un minore, ci muoviamo per chiederne il rilascio dal centro. Gli interlocutori a cui rivolgersi sono UNHCR e IOM – a seconda della nazionalità del minore – che si attivano per fare pressioni sulle autorità dei centri.

La Libia riconosce però come titolari di protezione umanitaria solo gli appartenenti ad alcune nazionalità (siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, sud sudanesi, yemeniti, etiopi di etnia Oromo e sudanesi del Darfur), a prescindere dagli altri fattori di vulnerabilità, tra cui ad esempio l’età. Per questo la domanda di rilascio per Bereket – il bambino eritreo – è stata relativamente semplice, mentre quella per Kali, originaria della Guinea Bissau, ha richiesto molto più tempo. Alla fine anche la sua è stata accolta perché le organizzazioni delle Nazioni Unite competenti hanno offerto garanzia del suo ritorno in patria, grazie al ricongiungimento con il padre.

Trovare un’alternativa alla detenzione è uno degli aspetti più complessi del progetto, sui cui è bene continuare a lavorare; soprattutto quando a essere coinvolte sono determinate categorie di persone, come ad esempio i bambini.

D: Facciamo un passo indietro: come si identificano i casi per cui procedere con un referral?

R: Quando lo staff Cesvi entra nei tre centri* in cui lavoriamo a Tripoli predispone colloqui individuali con i detenuti, per stabilire un primo contatto con loro. In questa circostanza viene effettuato uno “screening di vulnerabilità”: alla persona vengono chiesti i dati anagrafici principali (età, nazionalità e lingua), e quale siano i motivi per cui ha abbandonato il proprio Paese.

Non domandiamo mai direttamente se abbia vissuto una determinata esperienza traumatica durante il viaggio, ma chiediamo più genericamente quali problemi abbia dovuto affrontare. È un modo per capire se appartiene a una categoria di vulnerabilità – se ad esempio è stato vittima di torture o, nel caso delle donne, di violenza di genere –, senza sottoporlo a un interrogatorio troppo invasivo.

Sono i migranti stessi a comunicare, anche se non esplicitamente, quali siano i loro bisogni. Dai bisogni ripartiamo con la seconda fase, quella dei referral.

D: Il progetto finanziato da AICS sta per concludersi, possiamo cominciare a tirare le somme: quanti colloqui e quanti referral sono stati portati a termine?

R: A giugno 2018 avevamo sottoposto a colloquio circa il 60% della popolazione dei tre centri, ovvero 873 persone. In soli quattro mesi di progetto, può già dirsi un ottimo risultato.

Il 32% di tutti i migranti intervistati ha meno di 18 anni. Sono 373, e la stragrande maggioranza di loro (347) non è accompagnato.

Abbiamo effettuato 1.073 referral interni e 535 esterni. Da questo numero restano fuori i referral alle ONG mediche presenti nei centri, perché vengono fatti sul momento e non rimane traccia scritta della procedura burocratica. Tra tutti, i referral di casi di bambini sono 246.

D: Per concludere, una riflessione più personale: che soddisfazioni ti sta dando questo progetto? C’è qualche altra attività che ritieni importante segnalare?

R: Il lavoro è sicuramente molto stimolante, e con lo staff c’è un buon livello di affiatamento. Oltre ai referral, ci occupiamo anche di organizzare attività ricreative all’interno dei centri, come giochi sportivi, letture in lingue differenti o attività artistiche, per migliorare per quanto possibile la permanenza dei migranti.

Da parte loro, possiamo dire di avere feedback molto positivi: hanno bisogno di occupazioni diversive per tollerare meglio la propria condizione di “detenuti”. In quest’ottica, facilitiamo anche le telefonate ai familiari. Sentire la voce di una persona cara è spesso di grande conforto per loro.

Sono convinta che quanto facciamo sia davvero necessario e utile alle persone rinchiuse nei centri di detenzione: di fronte a questa certezza, le complessità del contesto passano in secondo piano.

 

* Tariq al Matar, Tariq al Seqa e Tajoura.