Un sorriso per le ragazze di Kirigiti

testo e foto di Cristina Francesconi

Il riformatorio minorile di Kirigiti, in Kenya, è di livello tre, il massimo per pericolosità.

Ospita 109 ragazze, tutte accusate di crimini gravissimi, fino all’omicidio.

Indossano un camice scozzese sui toni dell’azzurro e scarpe nere, che però quasi tutte hanno abbandonato in un angolo del cortile preferendo camminare scalze.

Entro un po’ intimorita pensando che avrò a che fare con il “top” della malavita locale, ma mi trovo di fronte a un gruppo di ragazze piene di vita. Esultano alla vista dei pennelli e dei bidoni di vernici colorate che faticosamente provo a trascinare oltre i cancelli. Mi corrono incontro gareggiando per portare una parte del mio bagaglio da imbianchina, che caricano sulla testa con la leggerezza e l’eleganza di ogni donna africana.

Hanno dai 12 ai 17 anni e tutti gli atteggiamenti tipici delle nostre teenager. Gridolini, abbracci, saltelli, sussurri e poi esplosioni in risate apparentemente insensate.

Non trovo in loro nulla che possa in qualche modo ricordarmi la parola “criminale”.

Provo a confrontarmi con le ragazze per capire il tema del grande murales che andremo a dipingere, un’attività artistica che è parte di un progetto Cesvi all’interno di alcuni riformatori in Kenya. Sono incontenibili, fremono all’idea di prendere in mano i pennelli e dipingere sulla grande parete del cortile qualcosa di personale, senza costrizioni. Propongo di iniziare con immagini positive, quelle che amerebbero vedere ogni giorno, magari un sogno da avverare. L’entusiasmo diventa così prorompente e contagioso che non riesco più a trattenerle.

Decido di dare il via ai lavori.

La prima fase del murales prevede di dipingere la parete con una doppia mano di base bianca. Non ho neppure il tempo di spiegare alla prima ragazza il modo migliore di usare il pennello: in un batter di ciglia tutto è bianco immacolato, comprese le loro facce.

Ed eccole di nuovo scalpitanti in fila di fronte a me a chiedermi i colori.

La base adesso deve asciugare e provo a escogitare qualcosa per trattenerle. Così mi siedo sul pavimento, il sole ci scalda. Inizio a raccontare la mia storia: sono diventata mamma a soli sedici anni, tra tante paure e difficoltà che, con un po’ di fortuna e una buona dose di volontà e cocciutaggine, sono riuscita a superare.

Sono tutte attente, curiose, fanno un gran numero di domande. A quel punto chiedo se qualcuna vuole raccontare la sua storia.

Silenzio. Improvvisamente silenzio.

Tengono lo sguardo basso e mi spiegano che le regole del riformatorio vietano che si parli con gli estranei del passato e delle motivazioni che le hanno portate a scontare questa pena. Per la prima volta mi rendo conto che sono all’interno di un carcere.

Una campanella risuona nel cortile e tutte corrono a mettersi in fila davanti alla mensa per il pasto. Una ciotola di polenta e fagioli e una tazza d’acqua. Qui non si può parlare. Le osservo e mi sembrano calate in un’altra realtà, una quotidianità fatta di anni di pena da scontare, di gesti sempre uguali, di paure e frustrazioni. Tutto quel silenzio mi angoscia. Il rumore dei cucchiai che sbattono nelle ciotole di ferro è ossessivo.

Sciacquano le scodelle e si esce di nuovo in cortile… allora le voci tornano a sbocciare come i bucaneve, insieme agli immancabili sorrisi.

Il muro è pronto, si può disegnare.

Eccole lì, con le matite impugnate con orgoglio, di nuovo adolescenti spensierate senza timore di sbagliare. Disegnano di tutto, senza una logica. Le lascio fare perché so che questo è un momento di libertà per loro.

Il potenziale espressivo della pittura, in certi luoghi, diventa uno strumento liberatorio o più semplicemente la possibilità di avere una voce.

Il giorno seguente e quelli ancora successivi si tuffano su quel muro e su quei colori come fa con l’acqua un assetato.

Ci sono colori forti come grida riecheggianti. Ci sono nomi e cognomi, ripetuti più volte, spesso accanto a quello del villaggio di origine, come a non volersi omologare alla divisa, come a voler preservare la propria identità. Ci sono frasi lette su un libro e ci sono sogni. Come quello di Pauline, che voleva fare il pilota di aeroplani e sopra il blu ha disegnato una farfalla. Ci sono cuori rossi sparsi ovunque e tanti fiori.

Ci sono anche, se guardi bene, tutte le storie che non si possono raccontare agli estranei.

Sono scritte nelle lacrime di una ragazzina con il vestito corto e le labbra rosso fuoco.

Sono scritte sulla faccia triste di un uomo tra i cespugli, su quella di uno sconosciuto in attesa di un autobus, sul grigio di una discarica disegnata sullo sfondo. Sono scritte sull’impronta rossa delle mani intinte nel colore che ognuna vuole lasciare.

E ci sono anch’io disegnata su quel muro. Mi ha disegnato Joyce, che forse con la mia storia ha qualcosa da condividere. Mi ha disegnato con un cuoricino rosso sopra la pancia.

Spero che i piccoli ma importantissimi progetti che Cesvi porta avanti in questi istituti possano offrire a queste ragazze un futuro diverso. Spero che un giorno possano parlare liberamente degli errori passati e trarne insegnamento per un nuovo cammino.

Spero che Pauline diventi pilota e che quella bambina con il vestito corto e le labbra rosse possa tornare a sorridere.