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Viaggio in Bosnia Erzegovina, 20 anni dopo

Pubblicato in Storie dal campoPubblicato il 22 Giugno 201514 Novembre 2016di Cesvi

 

Testo e foto di Cristina Francesconi, volontaria Cesvi

Credevo di essere preparata. Quella guerra così vicina me la ricordavo, conoscevo i fatti dai giornali, dai TG, avevo visto foto. Non lo ero… non ero affatto preparata. L’ho capito appena sono entrata a Sarajevo, con quei muri “feriti” da migliaia di buchi. Cicatrici sui muri in ogni luogo visitato in Bosnia Erzegovina. Cicatrici e lapidi bianche. E mine, ancora troppe mine a distanza di 20 anni. Ovunque cartelli rossi con teschi bianchi e la scritta PAZI-MINE. Le ultime grandi alluvioni e i conseguenti smottamenti del terreno hanno mosso le mine dalle aree già segnalate. Così ancora oggi, al di fuori delle strade asfaltate, il pericolo è altissimo.

Lo sminamento in Bosnia Erzegovina doveva concludersi nel 2009, ma non sarà ultimato, in base alle ultime stime, nemmeno nel 2019, prossimo termine stabilito dalle autorità di Sarajevo. Il rischio di morire però resta. Ed è altissimo. Dalla fine della guerra a oggi sono morti 603 civili saltati sulle mine anti-uomo. Lo stipendio di uno sminatore in Bosnia è di 700 euro. 47 addetti sono morti durante lo sminamento.

Non puoi non vedere, non puoi non percepire quanto sia stata devastante e complessa la guerra in Bosnia. Tutto quello che sapevo era incompleto e approssimativo. Ero di fronte a infinite piccole sfumature, a una realtà impossibile da catalogare in ruoli definiti.

Tutto mi sembrava separato da diversità incompatibili, inavvicinabili, eppure indissolubilmente fuso da secoli di storia. Amici Nemici. Oriente, occidente, serbi, bosgnacchi, musulmani, cristiani, vittime, carnefici, colpevoli, innocenti… perfino le carte geografiche risultano complesse, amalgami di Stati divisi ma inglobati in una stessa nazione.

Solo le cicatrici di questa Bosnia accomunano tutto e tutti in modo chiaro.

Profonde cicatrici psicologiche che turbano le memorie e, inevitabilmente, ancora oggi, condizionano la vita delle persone coinvolte. Perché la guerra è un cancro, che uccide anche chi resta vivo. Non ci sono vinti né vincitori, solo metastasi di odio che sopravvivono per generazioni. La guerra finisce, l’odio rimane.

A Srebrenica l’11 luglio 1995 si è consumato il più grande assassinio di massa in Europa, dalla seconda guerra mondiale. Più di ottomila bosgnacchi (bosniaci musulmani) furono trucidati dalle truppe dall’esercito della Republika Srpska comandate dal Generale Ratko Mladic’. Il tutto è avvenuto sotto gli occhi delle Nazioni Unite che avevano dichiarato “area protetta” la città di Srebrenica. La lista delle persone uccise o scomparse quel giorno a Srebrenica comprende ufficialmente 8.372 nomi.

Sempre secondo l’ICMP (Commissione Internazionale per le Persone Scomparse), 30.000 delle 40.000 vittime dell’ultimo conflitto jugoslavo sono bosniache, e di queste 9.000 risultano ancora disperse.

Nella sede dell’ ICMP a Tuzla ho visto migliaia di sacchi in plastica con frammenti umani all’interno, contrassegnati da numeri e codici, disposti in scaffali. Sono i corpi ritrovati nelle fosse comuni.

Il difficile e delicato compito delle persone che ci lavorano consiste nel ricomporre “puzzle” di vite perdute, pezzo per pezzo, e arrivare, grazie a sofisticati processi di riconoscimento del DNA, a una identità da riconsegnare alle famiglie e alla storia.

Cancellare cicatrici così profonde e ancora così presenti è molto difficile. Alle nuove generazioni è affidato questo compito. Proprio a Srebrenica il Cesvi gestisce una “Casa del Sorriso”, un Centro dove ragazzi serbi e bosniaci provano a ricostruire una convivenza pacifica attraverso attività di gioco, doposcuola, sport, musica e varie forme artistiche.

“I bambini di Srebrenica hanno bisogno di affrontare un percorso piscologico per superare i traumi della guerra”- mi racconta Azra Ibrahimovic, responsabile della Casa del Sorriso del Cesvi – “Anche se i più piccoli non hanno vissuto direttamente il conflitto, l’hanno fatto in modo indiretto attraverso i loro genitori e parenti. Certi traumi lasciano il segno, io l’ho provato sulla mia pelle”.

Con il mio aiuto di “volontaria imbianchina”, in questi giorni hanno dipinto un grande pannello: accanto a un fiore secco, che rappresenta guerra, odio, violenza e distruzione, sboccia un fiore pieno di colori. È un mondo nuovo, fatto di pace, rispetto, umanità, convivenza.

È da questi ragazzi che la Bosnia tornerà alla vita.

 

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