Zimbabwe: agricoltura 2.0 contro la fame

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Nel numero di giugno, VITA – il magazine italiano dedicato al terzo settore – pubblica i migliori progetti delle ONG italiane in Africa. Tra questi, l’intervento di Cesvi in Zimbabwe che si serve della tecnologia per migliorare la sicurezza alimentare della popolazione nelle aree rurali.

di Sara de Carli

Ogni due ore le centraline meteo — quattro, ciascuna con un raggio di copertura di 25 km — registrano temperatura, precipitazioni, forza e direzione del vento. Dei sensori misurano l’umidità del terreno fino a 50 cm di profondità, con letture ogni 10 cm. «Combinando tutti i dati, ad esempio l’umidità reale del terreno e le previsioni meteorologiche, si può decidere di “saltare” un ciclo di irrigazione, evitando costi e sprechi di acqua, senza mettere a rischio la qualità del raccolto», spiega Loris Palentini, Head of Mission Cesvi in Zimbabwe, «mentre la possibilità di prevedere la direzione del vento permette ai contadini di non essere impreparati dinanzi all’arrivo di parassiti».

Dal 2001 Cesvi sta lavorando nel Paese su tre progetti di “agricoltura 2.0” nei distretti di Beitbridge e Mwenzi, etichettati entrambi come “area 5”, ovvero aree non adatte alla coltivazione. Coinvolte 12 comunità, con almeno 1.500 famiglie e 17 scuole che già hanno avviato la coltivazione di un piccolo appezzamento di terreno con tecnologie più evolute. «In queste zone le famiglie vivevano di sussistenza, oggi cominciano a vendere i loro prodotti: nella zona di Shashe, dove abbiamo un aranceto, ognuno dei 270 contadini ha avuto in un anno un ritorno di 520 dollari, molti stanno iniziando ad aggiungere una stanza alla casa o a comprarsi una bicicletta».

La leva del progetto sono le nuove tecnologie — in particolare tecnologie irrigue — che consumano meno e costano meno, ma hanno una maggiore efficacia. «Tutti ammettono che la tradizionale irrigazione per allagamento sprechi molte risorse, ma davanti a un pivot che irriga dai 16 ai 34 ettari… sono un po’ diffidenti», racconta Palentini. Cesvi ne ha già istallati 4 e «parte del lavoro consiste proprio nell’organizzare visite fra le varie comunità per sciogliere i dubbi, far parlare le persone fra loro. I sensori che rilevano l’umidità servono anche a dimostrare che sistemi di irrigazione diversi hanno impatti diversi sul terreno e che con l’irrigazione a goccia l’umidità viene trattenuta di più. Interveniamo sempre in zone che avevano impianti di irrigazione deteriorati, in collaborazione con le autorità locali: ci si siede attorno a un albero, si discutono bisogni e aspettative e si decide insieme quale tecnologia è più adatta».

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