Abinaya e le altre

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di Valeria Pagani, volontaria Cesvi in India

Mi piace aspettare le bambine di sotto quando arrivano da scuola.

Solitamente, in Italia, avviene il contrario: da insegnante elementare, le accompagno fuori da scuola, tra le braccia rassicuranti dei loro genitori, tra le urla dei fratelli più piccoli, in mezzo alla fretta che i mille impegni della loro frenetica vita occidentale prevede.

Qui le aspetto a casa, seduta su una panchina di un marrone indeciso, dove prima di me sicuramente sono state altre volontarie, animate dagli stessi buoni sentimenti.

Oggi ci sono io e aspetto. Vivo bene questo momento, lo trovo naturale: mi piace quest’attesa dilatata, sospesa. Tempi che non sono i miei, modi che altrove non avrei.

E così, quando Abi con la sua bici arriva e da lontano mi sorride, mi sembra non abbia una grande importanza che
a scuola qui nessuno accompagni nessuno o nessuno vada a prendere nessuno. Mi sembra di essere dove devo essere: nel luogo giusto, al momento giusto. La vedo arrivare con la sua bicicletta olandese di un rosso bordeaux che quasi si confonde con la divisa che indossa. Pedala decisa fino al cancello, dove è costretta un attimo a scendere dalla bici per maneggiare il chiavistello che la separa dal vialetto d’ingresso. Nel fare questo, scompone le meravigliose trecce che le cadono morbide ai lati dal viso e riflettono la cura con la quale i capelli sono stati energicamente pettinati e intessuti come tappeti, questa mattina. Le trecce di ogni bambina fanno una curva su se stesse ai lati della testa come se, arrivate a un certo punto della strada, avessero dimenticato qualcosa e tornassero indietro a riprenderlo. Ed è lì che sono fermate da un nastrino colorato che sembra un fiore e che, nel caso di Abi, è blu a ricordare che lei frequenta la 9^ standard. Che non è una misura di vestiti o di capelli, ma la classe.

Ha 14 anni Abi, ma il suo corpo minuto e le proporzioni ridotte la fanno sembrare più piccola di almeno 5 anni. Oltrepassa il cancello con decisione e mi arriva con la bici quasi di fronte stando con entrambi i piedi in equilibrio su un pedale solo, in un movimento che io non ho mai saputo fare e per lei sembra abituale.

“Good evening sister” mi saluta, con quel gesto rapido della mano verso la fronte che fin dai primi giorni ho codificato come una mossa strutturata, un convenevole tra il militare e l’istituzionale al quale è imbarazzante non rispondere. Ad esso cominciano a far eco le altre ragazze che la seguono a piedi: prima Sownd e Sowmya, poi Vetri, Paru, Suru…

Se potessi ritagliare le loro figure perfette di bambine quasi ragazze, come sagome di un collage in questo esatto preciso momento, potrei incollarle in un foglio bianco e disegnare per loro qualsiasi tipo di scenario: sarebbero sorridenti tra i canali di Amsterdam con le casette colorate e la gente che passeggia attorno, o pronte a sfrecciare tutte in bici sul lungosenna parigino in un pomeriggio autunnale; potrei persino vederle correre nel primo piano di una pista ciclabile che costeggia il mare in un piccolo paese costiero italiano o ridere con lo skyline di una qualsiasi grande città alle spalle. Starebbe bene Abi con la sua bicicletta nel mio collage mentale, sorriderebbe allo stesso modo. Ora, però, è lì che sposta lo sguardo per concentrarsi sul suo rientro a casa e allora lo faccio anch’io e riconosco il colore rosso aspro della terra e i campi secchi che arrivano fino al limitare della foresta, interrotti solo da una specie di casa in muratura senza pareti, ma con un tetto. La costruzione è circondata da uno spazio ampio, brullo, anch’esso tutto cinto da mura.

Ci sono palme verdi in lontananza, un gruppo di caprette e due mucche poco prima che la foresta abbia la meglio su questo paesaggio, dove s’inserisce a sprazzi decisi tra un villaggio e l’altro. A rovinare questa strana armonia, i rifiuti che punteggiano il terreno ovunque si guardi, come coriandoli lasciati cadere dopo un carnevale.

Siamo al Nambikkai Centre, Ekta Shelter Home Killai. A poco più di un chilometro dall’oceano indiano che fiancheggia il Tamil Nadu, pochi chilometri fuori da Cidambaran, migliaia di chilometri distante dal mondo che sono abituata a vedere.

In questa casa, grazie alla forza di alcune donne, per riarginare i danni che la forza del mare aveva provocato, da anni esiste un progetto per accogliere le ragazze come Abi. Svantaggiate come future donne, mancanti di un pezzo (un genitore, un fratello, una famiglia intera) o con situazioni troppo difficili alle spalle. Per tutte loro è stato costruito un luogo sicuro in cui crescere, studiare e condividere.

Si fiondano in casa Abi e le altre, devono lavare i loro vestiti: la divisa che deve essere pronta per domani è un dovere quotidiano, la merenda è da preparare. Conosco i luoghi e gli spostamenti che faranno per queste attività quotidiane e so che gesti useranno. So che Vetri farà la furba e comparirà dopo, con il suo vestito da casa, dicendo che lei ha già finito e farà svuotare la sua acqua da qualcun’altra. So che Paru vorrà giocare e Sow mi chiederà un new game, anche se io vorrei giocare a cricket. Ramani riderà delle mie incertezze organizzative e Soumya giocherà nella mia squadra. Alcune staranno sedute a guardare, altre arriveranno in ritardo. Ranju mi racconterà di una lite scoppiata nella sua classe e Mani raccoglierà fiori per regalarmeli. Suru parlerà con Siva.

Allora aspetto. Tra poco cominciamo. Tutte donne. Tutte assieme.

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