Myanmar, donne al centro dello sviluppo

 

di Giulia Calligaro

foto di Chiara Luxardo

Secondo un detto popolare, in Myanmar le cose importanti le decidono gli uomini, le cose meno importanti le decidono le donne: ma quali cose siano importanti e quali no lo stabiliscono le donne. E ancora tutti ridono, mostrando le finestre di gengive tra i denti, se qualcuno tira fuori questo vecchio adagio nei villaggi rurali fatti di capanne di bambù, che sono tutt’oggi oltre il 60% della realtà della Birmania, come si chiamava il Paese prima che la il regime ne cambiasse il nome, insieme a quasi tutti i segni del passato di ex-colonia inglese. In realtà la saggezza antica si è rivelata più veritiera che mai ora, dopo la nomina del primo presidente non militare nella figura di Htin Kyaw, amico d’infanzia e occasionale autista della “Lady” Aung San Suu Kyi, eroina della Pace, tanto da meritare il premio Nobel nel 1991, e della libertà, tanto da scontare, fino al 2010, vent’anni di arresti domiciliari per reati d’opinione. Già dopo la vittoria della Lega nazionale per la democrazia alle elezioni generali dello scorso 8 novembre, impossibilitata a candidarsi lei stessa poiché lo vieta una legge –  fatta ad hoc –  a chi abbia come lei marito e figli con cittadinanza straniera, aveva annunciato che avrebbe governato al di sopra del Presidente. E ciò sarà anche un simbolo di rinascita per il popolo femminile birmano, in una delle società più conservatrici dell’Asia.  

Per comprenderlo meglio questo momento cruciale del Myanmar, dopo mezzo secolo di dittatura che l’ha tenuto fuori dalla Storia, abbiamo attraversato il Paese partendo da Yangon (ex Rangoon), la città maggiore con i suoi 5 milioni di abitanti e capitale fino al 2005, quando il generale Than Shwe la trasferì a Naypyidaw per ragioni di astrologia. Qui si prova la vertigine di camminare esattamente lungo la linea del tempo, distesa tra l’oro delle antiche pagode e un futuro arrivato troppo di fretta, dopo la fine dell’embargo nel 2012, con 100mila auto solo negli ultimi sei mesi, corrispondenti a picchi di crescita fino all’8% e a una nuova classe media. All’alba un intero  popolo in longyi – la tradizionale gonna pareo per ambo i sessi – medita davanti ai grandi Buddha e poi mangia indifferentemente ai primi fastfood globali o nei tradizionali chioschi di strada. Sotto il cielo denso e caldissimo che sale dal golfo, camminano gruppi di monaci in tunica rossa scuotendo la ciotola dell’elemosina e ragazze con il telefono in mano che sanno già d’Occidente. A questo punto, continuare l’esplorazione all’interno del Paese, come abbiamo fatto visitando i progetti del Cesvi, è come aprire la porta di un’altra epoca. Evitando il Nord, al confine con la Cina, sulla via di passaggio di giada, rubini e oppio dove regnano la guerriglia e le repressioni, l’aria che tira si sente già bene nello stato centrale dello Shan, dove Cesvi è presente con importanti piani di sanità per la cura e il controllo della malaria e della tubercolosi, e poi spingendosi nella Dry Zone, dove la Ong ha avviato iniziative di piccola economia rurale: tutti progetti che stanno potenziando i ruoli femminili. In mezzo alle due aree ci sono i 3.000 templi di Bagan e le palafitte del Lago di Inle, ormai bersaglio di frotte di turisti e dove questa terra, è già forse quel che sarà: avida della sua bellezza e astuta nel dispensarla.

Ma nei villaggi no: lì si  percepisce ancora l’effetto di oltre due millenni di buddismo puro, penetrato nel sangue come un respiro e la propensione a condividere e ad aiutarsi per illuminare questa e le prossime vite. Con la clinica mobile di Cesvi, al seguito di donne centaure che fanno la spola tra le volontarie di decine di centri remoti e i punti di sanità, per raccordare informazioni, farmaci e controlli, siamo arrivati in luoghi che potremmo giurare che non esistono se non li avessimo visti con i nostri occhi. “Aiutare e curare le persone mi ha riempito il cuore più di un marito e dei figli”, racconta Myst Myst Htwe di 27 anni, che in un paesaggio di terra rossa e capanne tira fuori dal casco un viso sottile disegnato con il giallo del thanaka, una radice che protegge dal sole. Lei è arrivata a Cesvi dopo una laurea e varie difficoltà a farsi strada nel mondo del lavoro, che per una donna qui ancora significa spesso rinunciare a matrimonio e figli, proprio come l’eroina San Suu Kyi che lasciò all’estero la famiglia quando iniziò la lotta per la sua patria. Than Than Nu di 25 anni si è invece potuta sposare, e anche se il compagno è preoccupato di saperla in giro con la moto, crede proprio che non mollerà: “Mi piace sentire che mi riconoscono e mi rispettano”, dice strizzando gli occhi a mandorla: “Una volta la donna stava solo a casa”. “Finché non ci sarà maggiore accesso all’educazione e alla sanità, il Paese sarà sempre arretrato. Le donne devono portare i valori del cambiamento”, stigmatizza poi Nwe Hnin Htwe, 26 anni, anche lei operatrice sanitaria, e  poi striscia l’aria con l’indice puntando la lista di palafitte del villaggio di Sint in, un luogo surreale cresciuto parallelo a un grande fiume, a una ferrovia e a un treno che passa solo la sera alle cinque: “Era il centro con maggiore incidenza di malaria e ora non si registrano più casi”, aggiunge. Della tubercolosi ugualmente non conoscevano i modi del contagio e ora invece la curano per tempo. E questo lo dice con l’orgoglio di chi comprende il valore del proprio stare nel mondo.

Come i caratteri femminili potrebbero essere fondamentali a un nuovo tipo di progresso, lo abbiamo appreso in mezzo alle comunità contadine che vivono in un vero deserto di sabbia e palme nelle regioni di Magway e Mandalay, dove un maiale, un sacchetto di riso preso dalle banche dei semi istituite da Cesvi o la capacità che è tutta delle donne di fare risparmio in piccoli gruppi di microcredito, può essere il passo che avvia l’economia di un’intera famiglia, che fa studiare i figli (purtroppo meno frequentemente le figlie), che consente di supportare i mesi in cui un marito è fuori a lavorare a mezzadria: “Chi fa figliare il maiale ricevuto, tiene per sé alcuni piccoli; chi raccoglie il riso, tiene per sé quel che serve e dona agli altri quel che avanza: così si compie la volontà di Buddha e l’amore che è nella natura delle donne”, ci spiega U Htay Naing, che lavora per la Ong ed è un campione di buonumore, mentre la comunità, che sembra felice di ricevere visite e dare notizie di sé, offre banchetti di benvenuto e sorrisi rossi per l’uso del betel, una radice mescolata a tabacco e calce, lievemente euforizzante. E ci abbiamo provato a trovare disperazioni e lamenti, rivendicazioni di spose, girando tra la polvere di minimi allevamenti, piccoli orti e case senza acqua ed elettricità: ma niente da fare, qui tutte ti ripetono che il destino è un privilegio divino e lo si onora, senza smettere di lavorare per il futuro. Lo dice pure la bella Su le Men Men, agronoma per tutto il distretto, che sa già che seguirà il fidanzato dopo il matrimonio: “Lo stesso troverò un modo di dare quel che posso al Paese”, dice. Qui non fanno il nome di San Suu Kyi, come non ci fosse nulla di rivoluzionario nell’aria che viene, ma se si pone loro la domanda indicano un’immagine appesa in casa vicino a Buddha.

Rientrando a Yangon e al suo crescere scomposto e rumoroso, abbiamo ripensato a una bella tradizione del Myanmar, per cui tutti, uomini donne, prima di diventare adulti, entrano un periodo in monastero. La cerimonia prevede che vengano vestiti da re e poi rasati e spogliati di tutto per scoprire dentro di sé ciò che vale veramente. E sono oggi proprio queste due facce della ricchezza a contendersi il braccio di ferro del futuro. E potrebbero essere le donne a far pendere il piatto dal lato più inedito.

 

Cesvi è attivo in Myanmar dal 2002, in particolare a Yangon con progetti di riciclo dei rifiuti; nel Nord dello Shan e nel Kachin, al confine con la Cina, con progetti di sanità sulla prevenzione, controllo e cura della malaria e della tubercolosi in 727 villaggi, e nella Dry Zone, dove promuove la gestione delle risorse naturali, progetti di home-gardening, piccolo allevamento, microcredito e sicurezza alimentare, favorendo l’inserimento delle donne nei comitati di sviluppo in oltre 300 villaggi.