Obiettivo Mogadiscio

testo e foto di Fulvio Zubiani

 

Mogadiscio. Un tempo bastava pronunciare il nome di questa città per farmi riflettere. 

Mogadiscio fa parte della storia italiana più di quanto si voglia credere. Non solo per il passato coloniale, ma anche per la fallita missione ONU che abbandonò la gente al proprio destino nel ’95 e per il ricordo della giornalista Ilaria Alpi, giustiziata l’anno prima mentre indagava su strani spostamenti di rifiuti tossici militari provenienti dalla guerra nei Balcani. Non si legge quasi nulla della Somalia sui giornali italiani, se non per qualche rapimento da parte di presunti pirati. La Somalia, Mogadiscio in particolare, è un’autentica emergenza dimenticata.

Sono andato in Somalia la prima volta nel maggio 2010 per un servizio fotografico insieme a Cesvi. Nel centro del Paese, a Galkayo Sud, ho incontrato molte persone fuggite da Mogadiscio. Alcune di loro lavorano ancora oggi per Cesvi. Ascoltando i loro ricordi, ho notato una luce speciale nei loro occhi, piena di nostalgia e di remota speranza di tornare. I più anziani mi hanno salutato in italiano, contenti di poter rispolverare una lingua imparata da piccoli, arricchita da parole di altri tempi.

Andare a Mogadiscio, allora, era impensabile. Provai a chiedere e mi guardarono come un marziano. Due anni dopo, eccomi qui: la situazione si è completamente capovolta. Mogadiscio è diventata accessibile, seppure con imponenti misure di sicurezza, mentre Galkayo e l’interno della Somalia sono, se possibile, ancora più isolati dal mondo esterno. I miliziani di Al Shabaab hanno abbandonato la capitale, spinti via dalle forze militari dell’Unione Africana (AMISOM) con l’aiuto dell’esercito keniota e si sono dispersi all’interno del Paese.

Ho accolto la possibilità di documentare le attività del Cesvi a Mogadiscio con entusiasmo, certo che avrei vissuto un’esperienza importante e indimenticabile. Non sapevo cosa avrei trovato, non riuscivo a immaginare come potesse vivere in questa città una popolazione di circa 1 milione di abitanti dopo 20 anni di guerra civile e, prima ancora, decenni di corruzione inimmaginabile. Le foto che descrivono Mogadiscio negli anni ’60, che ho guardato con curiosità in questi anni, ritraggono una città bellissima, con palazzi coloniali e ampie strade alberate.

Il piccolo aereo delle Nazioni Unite parte da Nairobi alle 7:30. Sono in compagnia di Ruta, responsabile Cesvi per la Somalia, e di Olivier, che si occupa di garantire la sicurezza. Dopo poco più di due ore di volo intravedo la costa somala: spiagge bianche invase da una luce quasi accecante. Poi ecco le prime costruzioni, stiamo arrivando a Mogadiscio. L’aereo scende rapidamente, atterra su una pista sconnessa e si arresta in prossimità di un fatiscente terminal. Durante il breve viaggio verso il centro, dai vetri semi-oscurati e a specchio della 4×4 scorgo qualcosa, ma non riesco a raccogliere vere sensazioni. All’interno delle mura che circondano l’hotel c’è un mondo di silenzio. Dopo pranzo partiamo verso un centro di salute, dove Cesvi – grazie al sostegno di Fondazione Cariverona – gestisce un ambulatorio medico e un magazzino per lo smistamento di materiale di prima necessità da destinare alla popolazione. Il tragitto dura una mezz’ora e si attraversa gran parte della città, o meglio di quello che forse una volta era la città. Le strade sono percorse da molte auto, più di quante potessi immaginare, e da molte persone. Non esistono vere e proprie costruzioni: vedo soprattutto baracche, dietro le quali si notano resti di case distrutte. 

Cerco di fare qualche foto alla città dall’interno dell’auto, ovviamente con i finestrini chiusi. Ne escono immagini in movimento, che riescono però a descrivere la realtà: una città in movimento, con le persone che riempiono le strade e sembrano affaccendate in varie attività. C’è chi vende qualche frutto o abiti su bancarelle, chi trasporta ogni genere di materiale, chi affolla fatiscenti caffè, chi semplicemente vaga senza una meta. Quello che si percepisce è l’ombra di una città completamente dissociata: un’architettura un tempo imponente, completamente distrutta, invasa da campi profughi e una moltitudine di persone che sembrano insensibili alla distruzione e abituate a quello scenario. I campi profughi sorgono ovunque ci sia uno spazio disponibile, in luoghi che sembrano quasi set cinematografici, irreali, come lo scheletro della cattedrale oggi semidistrutta e abbandonata. 

Questa situazione si ripete per tutti e tre i giorni in cui resto a Mogadiscio: ogni volta, siamo accolti da centinaia di persone in attesa di ricevere cure e attenzioni dal personale Cesvi, che somministra medicinali, distribuisce sapone, visita i pazienti nell’ambulatorio. Per me sono incontri coinvolgenti che cerco di fissare con la mia macchina fotografica, ma tanti pensieri si affollano nella mia mente. Di fronte ai sorrisi dei bambini, identici a quelli delle loro mamme e nonne, mi chiedo come riescano a trovare la forza di essere felici. Eppure sembra del tutto naturale. Forse la vita sta davvero riconquistando piano piano anche questi luoghi e chissà che un giorno, tornando a Mogadiscio, la distruzione che ho visto possa solo rappresentare un ricordo.